SE DA TEMPO cerchi senza successo un compagno sensibile che sappia intuire come stai anche in base a una banale conversazione, probabilmente sinora non hai mai trovato un musicista. Avere orecchio musicale – secondo uno studio pubblicato sull’ultimo numero dell’European Journal of Neuroscience – può costituire un vero e proprio vantaggio in una relazione perché aumenta letteralmente la nostra capacità d’ascoltare gli altri, di decifrarne gli stati d’animo a partire dal tono della loro voce e quindi di rispondere ai loro bisogni. Che i musicisti fossero più sensibili alle sfumature emotive celate in un discorso era stato già segnalato da precedenti ricerche. I ricercatori della Northwestern University, Illinois, sono stati però i primi a trovare il fondamento biologico del legame tra musica ed emozioni. Per farlo, Dana Strait, Nina Kraus, Erika Skoe e Richard Ashley hanno reclutato 30 volontari, uomini e donne, musicisti e non, tra i 19 e i 35 anni. Dopo aver applicato sulla loro testa degli elettrodi, hanno mostrato loro un film naturalistico in lingua straniera sottotitolato al fine di distrarli mentre – attraverso delle cuffie – gli veniva fatto ascoltare per appena 250 millesimi di secondo il suono del pianto di un bambino e, grazie agli elettrodi e al cosiddetto Abr (esame dei potenziali uditivi), hanno monitorato le attività del nervo acustico dei volontari in risposta ai diversi stimoli sonori. I cervelli dei musicisti hanno risposto al suono del pianto molto più velocemente e accuratamente dei cervelli dei non musicisti. A differenza di quest’ultimi, quanti avevano esperienza in ambito musicale si sono dimostrati più sensibili alle variabili acustiche del pianto – tono, tempo e timbro – che più chiaramente svelavano lo stato d’animo del bambino trascurando quelle meno emotivamente significative. Non solo: coloro che avevano intrapreso gli studi musicali prima dei sette anni e che li avevano proseguiti per oltre dieci anni erano più in grado degli altri di individuare e decifrare le variabili acustiche che veicolavano informazioni sullo stato d’animo del neonato.
“I nostri risultati suggeriscono che l’esperienza musicale produce sia un aumento sia un miglioramento delle risposte neurali subcorticali connesse con le caratteristiche acustiche importanti per la comunicazione degli stati emotivi”, hanno concluso i ricercatori segnalando che il “ruolo subcorticale nel processo acustico delle sfumature emotive” rappresenta “la prima prova biologica” che la pratica musicale accresca la percezione delle emozioni espresse oralmente. “Identificare velocemente e accuratamente un’emozione in un suono è un’abilità che si traduce in ogni area, in una giungla infestata da predatori, in un’aula scolastica, in un consiglio d’amministrazione o in una camera da letto”, ha commentato Dana Strait – principale autrice dello studio, nonché suonatrice di piano e oboe – precisando che è solo la pratica, e non una predisposizione innata verso la musica, a renderci più sensibili. Anche l’amante più incapace di decifrare i sottili messaggi spesso camuffati in una semplice parola può perciò recuperare: se proprio non vorrà imparare a suonare il piano né tanto meno l’oboe, potrà sempre esercitarsi ad avere orecchio per la musica e per il partner.
(8 marzo 2009)
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